TIME OF A DIARY

DIARIO DI UN LOCKDOWN

DI ALESSANDRO SONSINI

ANTONIO ZIMARINO

CURATORE

RITROVARSI

Il percorso si svolge attraverso una serie di passaggi che rappresentano delle progressive fasi consapevolezza, prese di posizione nei riguardi dell’esperienza dell’isolamento. Singolare il fatto che per l’autore il problema non sia la “malattia” in sé quando la posizione che noi prendiamo in rapporto con essa.
In effetti noi possiamo dire ben poco, a meno che scientificamente competenti riguardo il virus e processi di diffusione ma possiamo oggettivamente fare quello che noi possiamo: scegliere un rapporto, un comportamento nei confronti di un problema oggettivo. Ma per poter arrivare a questo, è necessario attraversare un percorso di riflessione.
La riflessione è ricerca e attesa di una risposta e non avviene nell’immediato ma si sviluppa per fasi, per momenti. Ed ecco che questi acquerelli si dipanano in una serie di “sequenze” che sono indubbiamente la storia di questa acquisizione di consapevolezza che metaforicamente, potrebbe appartenere anche a noi.

Si inizia con la serie “barcode” che ci fa entrare immediatamente in una questione importante che riguarda il nostro contesto: globalizzare, è un’arma a doppio taglio, costringe a condividere tutto, nel bene e nel male, per cui le paure così come le opportunità si possono moltiplicare perché investono “il tutto” delle nostre relazioni. Ma essa può improvvisamente entrare in crisi al momento in cui superandone la visione edulcorata dei media, ci rendiamo conto che essa ci obbliga a condividere anche le tragedie.
Il codice a barre diventa la simbologia del dominio informatico sulle cose, della progettabilità e dell’ordinamento binario di natura identità società e coscienze e nei dipinti, si torce, si spezza, si applica al corpo, si connette con la natura, si confonde con essa, a catalogarla a stravolgerne l’essenza perché in fondo un virus non può essere il frutto della pretesa di manipolazione e controllo di tutto? E’ un momento di timori profondi.
Ed è questo che ci obbliga a re – isolarci in “case metafisiche e reali”. Le case che sono rappresentate appartengono ad un immaginario filmico, direi quasi “hopperiano” iconiche, fisse, immobili, stagliate. Sono il rifugio entro il quale avverranno, avvengono i nostri rivolgimenti interiori, le nostre consapevolezze. Sono il luogo all’interno del quale siamo chiamati a riandare a noi stessi, a renderci conto di cosa cambi o meno di fronte alla percezione della precarietà.
Sono le “nostre” case in cui abbiamo trovato rifugio, ma per qualcuno anche il dramma di “doversi” rivedere nelle relazioni interpersonali, nelle relazioni con la propria storia, con il luogo.
Nel caso della storia interiore che stiamo seguendo, è da questo momento che cominciano ad essere rivisti canoni e fondamenti ed essi abbozzano una nuova possibilità di “struttura” reticolare che si forma, si definisce pian piano, che rilancia le sue linee intorno ad altri simboli, che li riconnette dal di dentro, che li riapre ad una possibilità di ricombinazioni e ricostruzioni necessarie.
Cambiare struttura. Non struttura numerica eppure struttura razionale ma immaginale che ricostruisce le connessioni, che crea diversi supporti che entra e si ripresenta in prospettive diverse.
Infine i “nuovi paradigmi”: sono il ripensamento delle strutture della nostra convivenza le possibilità di ripartire di pensare edifici nuovi, non tanto nelle loro linee generali: essi sono “grattacieli”, chiedono il cielo, come le strutture del potere tecnologico ed economico che li fece nascere, ma stavolta la loro costruzione non è un logico telaio metallico modulare, uguale a se stesso, che si sovrappone monotono. Le strutture nuove sono composite, sghembe, incastrano i cromatismi, quelle cromie che abbiamo incrociato durante tutto il percorso visivo. Si ricompongono mischiandosi, sono ipotesi, speranze, preghiere desideri.

Formalmente la “narrazione” di questa presa di coscienza di se, di questo riandare a se stessi si sviluppa attraverso l’uso di una serie di simbologie contemporanee basilari, (barcode, casa americana, impalcatura) il cui senso viene sottolineato, amplificato e variato sviluppando relazioni intuitive tra linea e colore: non sono immagine progettate ed illustrative, non sono progetti, ma nascono e prendono forma nel loro costruirsi, nel loro suggerire linee e rapporti bilanciati di forme e di colori … questa è un’operazione quanto mai singolare per lavori ad acquerello che richiede una “pratica” ed un controllo estremo del segno, dell’acqua e del colore. L’acquerello non ammette errori, non ammette ripensamenti e pentimenti.
Ed è anche in questa scelta che io trovo davvero singolare il lavoro di Alessandro Sonsini: ha scelto di ”scontrarsi”, incontrarsi”, sfidare qualcosa di difficile ma che gli ha imposto un auto controllo, una posizione riflessiva e meditativa impossibile con altri strumenti pittorici. L’acquerello, richiede un progetto che si costruisce dentro, un’etica del gesto, una attenzione una precisione che aiuta a due secondo me, eccezionali atteggiamenti interiori: 1) la meditazione tanto sul senso quanto sul gesto 2) la sparizione di ogni altra cosa in se stessi che non sia gesto e senso, ovvero, una sorta di raccoglimento interiore a suo modo liberatorio.
Bene credo che questo sia un segno di profonda autenticità, di profondo interrogarsi, un modo di concepire l’attività artistica non come “mostra di sé” ma come rivelazione di sé.
I dipinti acquistano così l’entusiasmo della scoperta, della progressione, della ricerca di una strada perché sono prima di tutto un discorso interiore.
E dentro questa storia possiamo forse ritrovare le nostre e domandarci se anche per noi questo dramma e sconvolgimento oggettivo di abitudini, certezze e sicurezza, sia stato occasione per perderci o ritrovarci. Alessandro, lontano da tutti, mi sembra si sia ritrovato.

ANTONIO ZIMARINO

CURATORE

ALESSANDRO SONSINI

ARTISTA

Era il 2 Marzo 2020 e avevo appena disallestito “Desverguenza Urbana”  alla  Galeria Roma di Città del Messico, quando a mia insaputa i figli e mia moglie, che stava vivendo la pandemia in Italia, hanno deciso di farmi fuggire da quella megalopoli fattasi improvvisamente troppo pericolosa per la categoria a rischio alla quale appartengo.
Sei ore dopo ero gia’ atterrato a Salt Lake City.
Il giorno successivo le frontiere americane si chiudevano al resto del mondo e io non avevo idea di quanto quella permanenza sarebbe durata.
Nella casa americana su Lincoln Street 955, dove abitavo, c’era tutto il Nuovo Continente in pillole, compresa una luminosa finestra sul giardino verdissimo, pronto ad esplodere per la Primavera alle porte. E poi mio figlio Riki, a qualche centinaia di metri da quella casa, ma comunque rigidamente distanziato.
L’unico collegamento con gli affetti, WhatsApp.

Lo spaesamento, la solitudine e il senso di isolamento sono arrivati dopo, perchè il tempo di rendermi conto non c’era stato;  e poi il pensiero fisso a quel maledetto virus che aveva messo in ginocchio un intero pianeta.
A quel punto, perchè non dipingerlo? Perchè non provare a riflettere collegando i pensieri alle mani di un pittore random? Realizzare un diario dipinto era l’unico modo per sopravvivere a quello shock, facendosi trascinare dal vortice dei colori e del disegno.
Dipingere, quindi, come azione terapeutica, come esercizio per esorcizzare il virus, ma anche come operazione di conoscenza intima, di introspezione, al di là della valenza artistica.

Il primo gruppo di acquerelli esprime chiaramente la situazione di pericolo che stavo vivendo. Un’aria inquietante nella composizione delle forme e nel contrasto cromatico e la la presenza incessante dei barcode, in uno stato di liquefazione, di decomposizione.
Anche nel ciclo successivo, quello con le case americane, la minaccia è latente.
In realtà, le case ritratte sono sempre la rappresentazione della stessa casa: quella che più mi aveva colpito nelle solitarie passeggiate quotidiane. Uscivo quasi esclusivamente per andarla a trovare, non avendo altre mete in una città deserta.
Era diventata la mia modella preferita. L’ho dipinta per ben quattro volte.

Sparito il senso di paura, ma più per autoimposizione che per scampato pericolo, cominciava ad apparire nel diario dipinto la voglia di guardare avanti, immaginare il dopo, pensare ad un progetto.
Si apre in quel momento il cantiere dell’immaginario. Il luogo di un domani,  dove la casa, la città e il territorio diventava i protagonisti del cambiamento, del mondo che verrà.

Era un finale prevedibile; quello di un architetto che non ha rinunciato per un istante della sua vita all’idea che, un giorno, sarebbe tornato a fare il pittore.

L’Associazione Culturale “ideasapiens” nasce a Pescara, con l’obiettivo di ridare il giusto valore alla progettazione, intesa come elemento culturale e come volano per lo sviluppo del tessuto sociale della città e della regione.

Ideasapiens”, dunque, si occupa di progettazione intesa in senso ampio, dell’atto, precisamente, di proiettare in avanti una visione, che può manifestarsi sotto forma di un’architettura, un prodotto, un libro, un film, uno spettacolo teatrale o qualsiasi altro mezzo di espressione di creatività ed innovazione. L’obiettivo di “ideasapiens” è generare uno spazio, sia fisico che virtuale, capace di poter mettere a confronto quelle figure, professionali e non, che si muovono in tutti gli ambiti creativi esistenti e dare loro modo di avere a disposizione un momento di “meditazione” sul percorso che si sta facendo, di poterne parlare, di poter trovare un confronto costruttivo che, al di là della necessità del lavoro, dia anche sfogo alle ambizioni e all’immaginazione di una classe creativa che, collaborando, possa rendere qualsiasi città un posto migliore, in cui vivere e lavorare, attraverso la progettazione.

L’Associazione Culturale “ideasapiens” si propone per essere lo “spazio” di incontro dei creativi e di chi dalla creatività vuole prendere punti di vista diversi sulle cose, uno spazio dove confrontarsi e mettersi in discussione, con cui organizzare mostre, incontri, tavole rotonde, insomma uno spazio della progettazione.

In questa occasione, l’Associazione Culturale Ideasapiens ha affiancato l’artista curandone la strutturazione, la logistica, le riprese fotografiche, la realizzazione dei video e la comunicazione, allo scopo di essere di supporto ad una mostra che è un momento di riflessione sulla realtà che stiamo vivendo e che si propone, progettualmente, come momento di confronto sul da farsi per il futuro, incontrando, in questo modo, la mission che Ideasapiens ha nel proprio statuto.”